CRITICI

Il Taglio dell’OpacoTommaso Trini

 

Ōki Izumi si è domandata se e come la fluente scultura in vetro che va costruendo da dieci anni, possa definirsi una forma d’arte concettuale. Una domanda interessante. La questione si fa tanto più pertinente quanto più le comuni nozioni di architettura, di oggetto, di evento e infine di ambiente non bastano a definire, specie se prese singolarmente, i confini di questa opera. E’ un’unità dura. Ha una struttura labirintica. Qualcosa accade, evidentemente. Ōki taglia le sue lastre di vetro. Così lei configura i segni, le immagini e le costruzioni che poi noi vediamo. E’ questa azione che disegna il processo dell’opera, quasi irrorando la materia trasparente della sua scultura con il movimento di una faglia di opacità Taglio vivo, ombra cangiante, che il mio sguardo contribuisce a rendere mutevole in un incontro dove interagiscono con piani specchianti. Questo taglio continua nello spettatore come la danza struttura il labirinto. Nell’arte di Ōki Izumi perdura dunque un evento che dirama in me.
E ovviamente si tratta anche di oggetti, di oggetti d’arte. Come pure si ha un rapporto del tutto dichiarato con l’ambito dell’architettura. Manco a dirlo, inoltre, abbiamo a che fare con una dimensione ambientale. I primi lavori di Ōki erano conformati come modelli architettonici, immagini di case, fabbriche e templi; ma ben presto quei modelli sono diventati environment, vere e proprie installazioni ambientali entro una stanza. Con ciò, riconosco che l’opera della giovane artista giapponese che lavora da anni a Milano è arte avanzata, arte complessa: è “nonsoloscultura”.
Sennonché, resta da individuare la sua identità. Posso dire che la scultura di Ōki Izumi è insieme architettura, evento, ambiente e oggetto, purché non esageri nell’illimitatezza: le toglierei ogni singolarità. Molto singolare risulta, ai miei occhi europei, per esempio, la straordinaria duttilità con cui lo stesso, singolo lavoro di Ōki può sconfinare dal suo statuto di oggetto d’arte allo statuto oggetto di design, senza apparente contraddizione, senza che l’astista debba accondiscendere alle nozioni prettamente occidentali di arte applicata o arti minori. Semmai, quando configura una scultura di vetro coi piedi di un tavolo in ferro, Ōki Izumi compie uno sforzo maggiore. La relazione della sua scultura con l’architettura non è puramente iconica, non si si limita a miniaturizzare in vetro con un labirintico edificio alla Escher. Come ha ben scritto Pierantonio Volpini, “Il lavoro di Ōki Izumi è tangente alla sfera architettonica perché indaga la forma come volume dello spazio e come contenitore dello spazio mentale”. Esso produce anche oggetti, o parti di oggetti come nella flessuosa ‘onda giapponese’ che scorregge il prototipo di un suo tavolo, con il corpo nella sfera del design e con l’animo della sfera dell’arte. Tanta duttilità avrà forse a che fare con medium del vetro, ma certamente deriva dalle radici e dall’educazione dell’artista in Giappone – là dove la techne e l’estetica non sono mai state separate da idealismi. Allora, la risposta è sì. Abbiamo a che fare con un’arte singolarmente e velatamente concettuale. Mi piace il sul suo modo immaginifico di visualizzare un acquario liquido in un volume solido, entrambi egualmente pesanti; o la semplicità con cui congela la modalità di un pesce o una pianta entro la staticità di un massello di vetro, quasi cristallografico, che ha molteplici riflessi.
La costruttività concettuale di Ōki Izumi partecipa a diversi ambiti operativi e attraversa (e ci fa attraversare) varie stratificazioni delle nostre percezioni, sia ottiche sia mentali, sul ritmo di una medesima procedura, il taglio del vetro. Taglio che interiorizza le figure dentro la materia stessa, ‘cut up’ intellettuale che sfugge al bricolage manuale. Taglio lavorato in modo artigianale e tuttavia matematico. D’altronde, basta descrivere i suoi segni astrattizzanti dalle volute serpentine ad aree per quel che appaiono: sono nastri di Moebius. Le costruzioni di Ōki attraversano tutto questo per identificarsi altrove: ossia nella dimensione puramente concettuale dei modelli di rappresentazione con cui filtriamo tutti i nostri contatti e nostre distanze. Molti sono attratti dalla trasparenza, io preferisco dibattermi nell’opaco. I lavori di Ōki sono rilevatori di opacità. C’è qualche retorica nell’abbandonarsi al tema della trasparenza: retorica ecologica, quando non superumana. Non bisogna avere lo sguardo a raggi X di Superman per attraversare la simulazione cristallina delle sculture di Ōki. E comunque non c’è trasparenza che non sia illusiva, che non traspaia su una barriera o una catastrofe. Psicologicamente, l’esperienza della fragilità di queste sculture comporta anche lo stimolo o infrangerla. Chi è morbosamente attratto da vetri e ceramiche prima o poi desidera spaccarli.
Il digradare dei piani di vetro che configura le immagini, il taglio insondabile a cui applichiamo il nostro sguardo per riceverne volatili impressioni di figure (o lettere) per sempre imprigionate, sono motivo di stimolo a reagire e non rilassarci. Il taglio di Ōki Izumi rimanda alla teoria delle catastrofi di Thom ben più che allo stato di illuminazione di Budda. Qui la trasparenza funge più che altro come cornice dell’opaco, di tutte le cose ottuse contro cui scontriamo. L’artista assembla il flusso millimetrico dei tagli per farci vedere dentro la lastra di vetro e non attraverso lo specchio.
“Mi piaceva molto la trasparenza”, ricorda Ōki Izumi dalla sua infanzia, e via via dalle prime esperienze pittoriche su vetro. Un giorno, il suo maestro Iwasaki smise d’insegnare la pittura a olio e le disse di “lavorare nelle tre dimensioni perché sono più reali”. Venuta in Italia, verso il 1981 cominciò a elaborare sculture musicali con vetro e cornici di legno finto poiché il marmo e il legno non le piacevano proprio. Finché un giorno – era il 1988 – realizzò “un’idea della morte che avevo fin da piccola”. Fece una costruzione di vetri in una scatola che, riflesso in riflesso, creavano un buco senza fine, una simulazione di precipizio. Oggi, l’artista dice che “la trasparenza inganna” e, naturalmente, con tali inganni lei gioca.
Cresce il numero di artisti, specie artiste, che lavorano con il vetro. Una di loro, Cloti Ricciardi, ha così motivato la sua affascinata predilezione per questo mezzo: “Il vetro racchiude forse l’idea della purezza.” Racchiudendo moti virtuali, figure illusore e fenomeni di opacità, l’opera di Ōki Izumi apre la purezza attraverso la ferita. E attraverso l’indispensabile purezza apre anche le vie della conoscenza, o comunque le fa traspirare.

Gennaio 1991